S. ELISABETTA ANNA SETON
di
P. Gino FRANCHI
Elisabetta
Anna, appartenente ad una delle famiglie più in vista di New York, i Bayley,
felicemente sposata ad uno degli uomini più noti della città, William Magee
Seton, era nata il 28 agosto 1774. A pochi anni orfana della madre, il padre
risposato e totalmente preso dal lavoro e dall’insegnamento come medico, a 19
anni fu felice di andare sposa al primogenito di un ricco discendente di una
famiglia scozzese e così colmare la sua sete di affetto. Episcopaliana come il
marito, celebrarono le nozze il 25 gennaio 1794 nella vetusta chiesa della
Trinità e ben presto la loro casa fu allietata dalla nascita dei figli, 5 in neanche dieci anni.
Ben
presto però la loro felicità fu offuscata dalla morte del suocero, vero pilastro
delle fortune economiche della famiglia, dal rovescio degli affari dovuta anche
alle ripercussioni della guerra tra Francia ed Inghilterra e dal manifestarsi
sempre più grave della tubercolosi del marito. Elisabetta, con forza e
determinazione, si prese carico della situazione anche nel compito di seguire
l’amministrazione dei beni e di cercare di salvare il salvabile.
La
situazione ben presto precipitò: da una parte con il fallimento, dall’altra,
per la salute del marito, dovendo accettare il consiglio dei medici di trovare
un clima più mite per tentare di recuperarla.
Il
pensiero andò agli amici italiani, i Filicchi.
Filippo
Filicchi, nobile di Gubbio, aveva vissuto tre anni negli Stati Uniti intessendo
rapporti commerciali e di amicizia con le personalità più in vista, in
particolare con il confondatore e direttore della banca di New York, William
Seton, che era anche spedizioniere ed armatore: al ritorno in Italia aveva
portato con sé, per fare esperienza nei commerci, il figlio maggiore di questi,
William Magee. Egli più volte era tornato a Livorno con le sue navi e aveva
rinsaldato la sua amicizia con Filippo, diventato nel frattempo primo console
degli Stati Uniti per il porto di Livorno, e con il fratello di lui, Antonio.
Il
2 ottobre 1803 a bordo del veliero Shepherdess i Seton salparono accompagnati
dalla primogenita Anna Maria di otto anni: ma la nave aveva la “patente
brutta”, proveniva cioè da un paese in cui era in corso un’epidemia, perché a
New York imperversava la febbre gialla, e al loro arrivo il 18 novembre invece
di poter scendere a terra, incontrare gli amici, godere della loro ospitalità,
furono costretti a salire su una barca spinta da 14 rematori e furono avviati
per un periodo di quarantena al Lazzaretto di San Jacopo: stava calando la sera
e le campane rintoccavano l’Ave Maria.
La
profonda fede di Elisabetta, la sua assidua lettura delle Scritture,
l’intensità della preghiera la sostennero, mentre inghiottiva le lacrime e
nascondeva il proprio sgomento davanti alle stanze spoglie in cui vennero fatti
salire, senza possibilità di scambiare con i Filicchi, che erano accorsi, ma
non potevano avvicinarsi, altro che “mille sguardi affettuosi”, come scrive
Elisabetta nel diario che tiene per la sua amata cognata Rebecca.
Da
queste pagine balza viva l’immagine di una donna forte, abbandonata in Dio,
tesa ad accompagnare il marito verso l’eternità man mano che si rende conto che
non aveva scampo: usciti dopo un mese dalla quarantena, vennero condotti a Pisa
e, dieci giorni dopo William, stremato dalla tubercolosi, ma ancora in grado di
seguire la moglie nelle sue preghiere, morì il 27 dicembre e il giorno dopo
venne sepolto a Livorno nel cimitero inglese.
Elisabetta
accettò con profonda rispondenza alla volontà del Signore la morte del marito;
con la figlia Anna Maria fu accolta, ospite gradita, nella casa di Filippo
Filicchi circondata di mille attenzioni.
Amabilia
Filicchi, moglie di Antonio, la accompagnava a Firenze, dove rimase
particolarmente avvinta dalla fede espressa non solo dalla bellezza delle
chiese e dallo splendore delle opere d’arte, ma dal fervore della preghiera dei
fedeli. ‘Primo ingresso nella chiesa
dell’Annunziata a Firenze…O mio Dio!... solo Tu puoi sapere…’.
Cadevano
i pregiudizi verso i cattolici; i Filicchi certo, constatando l’intensità e la
purezza della sua fede, posero il problema della “vera Chiesa”, tanto che un
giorno Elisabetta disse ridendo a Filippo: Lei
vuole che io preghi, cerchi e professi la sua fede”. Filippo rispose: “Pregare e cercare, questo è tutto ciò che
io le chiedo”.
Una
cosa soprattutto mancava alla sua fede: l’Eucarestia e la trovò sotto lo
sguardo dell’immagine della Madonna nel Santuario di Montenero. Dal suo Diario: “All’Elevazione un giovane inglese vicino
a me, dimenticando le convenienze, sussurrò: ‘Questa è la loro presenza reale’.
Che vergogna provai a quel sussurro! E il rapido pensiero: ‘Se nostro Signore
non è là, perché l’Apostolo fece delle minacce?... come può egli biasimare il
non discernere il Corpo del Signore, se esso non è là?... come potrebbero
quelli, per i quali egli è morto, mangiare e bere la loro condanna, se il
Benedetto Sacramento non è altro che un pezzo di pane?’.
La
fame dell’Eucarestia e della verità aumentava: “cercare e pregare”. Gioia nel leggere, inginocchiata, La vita devota di S. Francesco di Sales,
Autorità infallibile della Chiesa
Cattolica: intanto Antonio le insegnava il Segno della Croce e con quale
spirito farlo.
Era
pronta per entrare nella Chiesa cattolica, ma i Filicchi preferirono che il
passaggio avvenisse dopo il suo rientro nel suo ambiente a New York,
affrontando l’opposizione dei parenti, le difficoltà delle prospettive anche
economiche cui sarebbe andata incontro, i dubbi e il profondo conflitto
interiore cui avrebbe dovuto esporsi e la “morte sociale” nei confronti della
bella società di cui faceva parte per entrare nella “feccia” dei poveri e pochi
immigrati irlandesi che allora componevano la comunità cattolica della città.
Soffriva,
deperiva, ma “cercava e pregava”: si consigliava con Antonio Filicchi, che
l’aveva accompagnata nel viaggio e che, pur preso dai problemi dei suoi
commerci, rimaneva costantemente in contatto epistolare con lei e la metteva in
rapporto con maestri preparati e santi.
Ogni
sera faceva il segno della croce, si commuoveva quando Annina, la figlia più
grande, insisteva per recitare insieme l’Ave
Maria che avevano imparato dagli amici italiani: “Mi dicono di stare attenta perché sono madre… Ma appunto per questo io
andrò serenamente e fermamente verso la Chiesa cattolica, perché se la vera
fede è così importante per la nostra redenzione io la cercherò là dove la vera
fede ebbe inizio… Venite, bambini miei,
ci presenteremo insieme a Nostro Signore. Un po’ piango, un po’ rido, ma non ho
paura… perché ripongo tutta la mia fiducia in Dio… Aspetto soltanto l’arrivo di
Antonio la prossima settimana per andare coraggiosamente e spavaldamente: ora è
affar suo!
Il
14 marzo 1805 “feci la professione di
fede”, poi il 25 marzo: “finalmente
Dio è in me ed io sono sua: io l’ho ricevuto!”.
La
sua fame di Cristo nell’Eucarestia era saziata e ci fu “un’esplosione di gioia e di letizia”.
Si
acuì la messa al bando da parte dei parenti e conoscenti, le difficoltà
economiche premevano nonostante il sostegno dei Filicchi, dovette cercarsi un lavoro
dedicandosi alla cura non solo dei suoi bambini, ma di altri ragazzi nel
convitto di una scuola: ma era solo un ripiego che non risolveva i problemi,
anche se Dio cominciava a tracciarle una strada.
La
volontà di Dio le si manifestò attraverso un missionario francese, il Padre
Dubourg, fuggito dagli orrori della Rivoluzione e che insieme ad altri a
Baltimora aveva potuto far crescere la comunità cattolica: potrà aprire lì una
piccola scuola per l’educazione delle bambine.
La
Seton, prima di accogliere la proposta, volle rimettersi al giudizio di Mons.
Carroll, Vescovo di Baltimora, ed anche dei consiglieri suggeritegli da Antonio
Filicchi, Padre Matignon e Padre De Cheverus di Boston: L’esortazione a fondare
la scuola fu unanime.
Nel
1808 Elisabetta Seton lasciava la città nativa, assieme ai figli a bordo del
Grand Sachem e giunse a Baltimora il 16 giugno, festa del Corpus Domini. Quando
giunse al Seminario di St. Mary il Vescovo Carroll, circondato solennemente dal
clero della città, stava cominciando la Messa ed inaugurava la nuova chiesa.
L’abitazione
che le fu trovata in Paca Street era proprio a ridosso della chiesa – di casa
poteva sentire squillare il campanello al momento della consacrazione – e la
modesta dimora di mattoni rossi fu anche la prima scuola parrocchiale per
giovanette che veniva aperta.
In
questo primo anno maturò anche la sua decisione di consacrarsi al Signore nella
vita religiosa: il 25 marzo emise i voti. Nel frattempo altre quattro giovani
si erano unite ad Elisabetta ed il 1° di giugno anche loro fecero i voti
religiosi: nasceva la prima congregazione degli Stati Uniti, le Figlie della
Carità nello spirito delle regole di S. Vincenzo de Paoli. Il vestito rimase
quello che aveva indossato a Livorno alla morte del marito al modo delle vedove
toscane. “Madre Seton” sarà ormai il nome e così sarà sempre chiamata in
seguito.
La
casa di Paca Street era ormai insufficiente e, nel susseguirsi delle cose
al modo dei fioretti di S. Francesco, un benefattore, Samuel Cooper, le fece
dono di un appezzamento di terreno ad Emmitsburg, cinquanta miglia da Baltimora,
dove potrà costruire un nuovo istituto e dare sviluppo alla sua opera. La
seguirono anche i figli: le bambine con lei al nuovo istituto e i due maschietti
a pochi chilometri dove il Padre Dubois aveva fondato il Seminario di Mout
St. Mary: potrà così continuare ad esercitare i suoi doveri materni.
La
casa di pietra (Stone House), che era stata del contadino del terreno regalato,
non era ancora sistemata e per sei settimane la comunità dovette sistemarsi in
una cabina di montagna messa a loro disposizione dal rev John Dubois. Il 31
luglio scesero nella vallata di S. Giuseppe e la “casa di pietra” da quel
momento venne considerata la “culla della comunità. Sei mesi dopo Madre Seton
aprì la scuola nel nuovo edificio di legno dipinto di bianco: per questo la
casa fu chiamata “White House”.
Il
lavoro della Comunità progredì rapidamente nonostante le sofferenze e le
durezze. Si aspettavano le Figlie di
Carità da Parigi che prendessero in carico la nuova opera, ma le Suore
incaricate rimasero bloccate a Le Havre dalle autorità napoleoniche. Non rimase
che adattare le regole dell’Istituto francese: d’altra parte Madre Seton era
“gelosa” della regola introdotta che le permetteva di continuare ad essere,
prima di tutto, mamma.
Seguirono
dodici anni di intensa operosità. Madre Seton dirigeva, istruendo le sue figlie
in santità ed avviandole come pioniere a fondare istituti e opere di carità. Le
scuole parrocchiali, la grande intuizione che sarà lo strumento essenziale del
forte sviluppo della Chiesa cattolica degli Stati Uniti. Ma istituì anche il
primo orfanotrofio cattolico a Filadelfia nel 1814, che preparò l’apertura del
primo ospedale cattolico (Baltimora, 1823). Nel 1817 le sue figlie furono chiamate
anche a New York dove, nell’area dove attualmente è il Central Park, aprirono
un grande istituto scolatico: la città che l’aveva rifiutata, riceveva i frutti
della sua conversione.
Continuò
la corrispondenza, nei limiti dell’embargo delle autorità, la corrispondenza
con i Filicchi, gli amici di Livorno che del resto continuarono il loro
generoso sostegno economico.
Il
dolore accompagnò comunque la vita di Madre Seton: prima le cognate Harriet e
Cecilia, che l’avevano accompagnata nella fede cattolica, poi due delle sue
figliole furono troncate dalla malattia che era entrata come un triste
patrimonio di famiglia, la tubercolosi. La prima a lasciarla fu Annina, la
primogenita, che aveva accompagnato i genitori nel viaggio in Italia: aveva
maturato la convinzione di essere anche lei chiamata alla vita religiosa, ma in
pochi mesi si manifestò il male e, attraverso strazianti sofferenze sopportate
con serenità stupefacente in pochi mesi raggiunse una condizione molto simile
alla santità. La madre raccontò in un diario il calvario della figlia, come
aveva fatto quando era stata accanto al marito nel Lazzaretto a Livorno. Annina
ottenne la dispensa, in riferimento alla sua giovane età, di emettere i voti e il 12 marzo 1812 spirò tra
le braccia della madre, mentre il Padre Bruté celebrava la Messa nella vicina
cappella.
Quattro
anni dopo la più piccola delle figlie, Rebecca la lasciò, anche lei dopo una
cammino straziate di sofferenze terribili per il male che si era manifestato
con una tubercolosi ossea. La madre, temprata al dolore e sostenuta dalla
luminosa direzione spirituale del Padre Bruté, dovette ancora una volta farsi
carico di accompagnare la figlia quattordicenne nel cammino verso l’eternità.
Per
i due figli maschi, non particolarmente dotati, Elisabetta era particolarmente
preoccupata che, nella prospettiva della sua fine, potessero rientrare nella
famiglia di origine e staccarsi dalla fede cattolica. Per questo cercò di
avviarli ad un lavoro che li tenesse lontani da queste prospettive e si rivolse
agli amici livornesi. Accolsero prima William e poi Richard, ma non erano
portati al lavoro commerciale e ognuno di loro, dopo una permaneza di alcuni
anni a Livorno, rientrarono in patria e si impiegarono nella Marina degli stati
Uniti. Richard morì poco tempo dopo la madre di una febbre contagiosa contratta
per assistere in maniera eroica il proprio comandate. La figlia Catherine,
affidata agli amici Harper, si fece suora della Mercede e morì novantenne.
Madre
Seton, dopo una vita spesa al servizi0 del Signore, si spense il 4 gennaio
1821, nel suo quarantasettesimo anno. La tubercolosi, che da anni minava la sua
salute, negli ultimi mesi si era aggravata. Circondata dalla sua Comunità,
sussurrò: “Siate figlie fedeli della Chiesa, siate vere figlie della Chiesa!”.
Fu
sepolta nel “piccolo sacro bosco” vicino alla casa, accanto alle cognate, alle
figlie, alle prime Suore che l’avevano preceduta nel cammino dell’eternità.
Padre
Simon Bruté scriveva all’amico Antonio Filicchi a Livorno: “…Ella visse
unicamente per le sue Suore e per
compiere i suoi sacri doveri… Com’era profonda la sua fede! Come era tenera la
sua pietà! Come sincera l’umiltà associata alla grande intelligenza! Come
grande la bontà e la gentilezza che irradia intorno!”.
“Non
cerco che Dio e la sua Chiesa” , aveva scritto nel 1805 nella notte del suo conflitto spirituale alla ricerca
della verità e della volontà di Dio. La chiesa di Dio la trovò, vi giunse, non rinnegando il suo passato, come
sottolineava il Papa Giovanni XXIII, il 17 marzo 1963, nel giorno della
beatificazione, ma piuttosto come punto
di arrivo provvidenziale offerto ai suoi studi, alla sua preghiera, alle sue
opere di carità, e al quale era preparata dall’orientamento della sua vita
precedente. A poco a poco, ella si è trovata nel seno della Chiesa cattolica:
fu per lei un arricchimento del patrimonio che possedeva già, l’apertura di uno
scrigno chiuso che ella aveva nelle sue mani, la conoscenza piena della verità
totale, vicino alla quale aveva sempre camminato sin dalla sua giovane età.
Fu
canonizzata, il 14 settembre 1975 dal Papa Paolo VI : “Elisabetta Anna Seton è
Santa”: era l’Anno Santo ed era anche, proclamato dall’ONU “l’anno della
donna”.