Beato Ghebré Micael
(1791-1855)
di
P. Vincenzo Lazzarini, CM
L’“Abate
Ghebré Michele”: con questo nome spesse volte San Giustino De Jacobis nei suoi
scritti chiama il suo discepolo e martire Ghebré Micael. Lo ha sempre ammirato
proprio così, quale monaco testimone dell’as-soluto di Dio e difensore della
Sua Verità; proprio come San Michele, l’Arcangelo.
E infatti
Ghebré Micael per tutta la sua vita ha ricercato la Verità, per
immedesimarvisi e configurarsi ad essa. Nacque verso il 1791 a Nefsié o
Dibò, contrada del villaggio Mertullè-Mariam, nome che deriva dal monastero
della zona; l’insieme della località è nel Goggiam, regione centro-ovest
dell’attuale Etiopia. Il padre di Ghebré Micael si chiamava Akilò (forse
Achille) probabilmente erede di una lontana discendenza portoghese: infatti
Ghebré Micael viene descritto dal De Jacobis di giusta taglia, di temperamento
nervoso, rosso più che nero nel colorito. Da ragazzetto, vispo com’era, gli
capitò presto di perdere un occhio, forse il sinistro (perché quando San
Giustino lo ordinò sacerdote dovette dispensarlo da tale “irregolarità”
canonica).
La scuola, presso il convento di Mertullè, frequentata
da bambino e poi da ragazzo, inclinò la sua mente alla riflessione ed
alla ricerca di convincenti motivi di vita. Per questo, all’età di 20 anni
circa, si fece più addentro alla vita ed agli studi monacali, con notevole
profitto; sarà sempre apprezzato come amante del sapere, versato in ogni
genere di cognizioni e di studi del suo paese. Fu infatti grande professore di
lingua (liturgia Ghe’ez) e del calcolo del calendario, nonché delle leggi
monastiche della disciplina Orientale.
Col
trascorrere degli anni, Ghebré Micael avvertiva un bisogno sempre più crescente
di sicurezza nella Verità e nella Fede. I più disparati tipi di risposte e
spiegazioni gli venivano presentati e proposti in una Abissinia agitata da
molte Sette, tutte di tendenza monofisita (che rifiutavano,
quindi, l’idea delle due nature, umana e divina, di Gesù). Tutte cercavano di
interpretare a proprio favore le citazioni di molte pergamene dei Padri
antichi, con l’intento di dare credito alle proprie dottrine. Ma Ghebré Micael
scelse di formarsi una propria convinzione con una personale ricerca sulle
fonti manoscritte nelle biblioteche degli antichi monasteri. Così scalò molte
alture monastiche fino a Gonder. Qui si fermò una prima volta: e con
l’esperienza già acquisita, incrementandola ed arricchendola, in pratica
costituì una vera e propria scuola per più di un decennio (1826-1837). Tra i
suoi alunni ci fu perfino il principe Iohannes, il quale si convertì al
Cattolicesimo proprio durante il periodo dell’intransigente imperatore Teodoro
(1854).
Verso
l’anno 1838 chiuse la scuola, valutando più opportuno riprendere i suoi
pellegrinaggi, di monastero in monastero, dirigendosi verso il Mar Rosso, con
l’inten-zione di arrivare fino a Gerusalemme. Dall’alto del monastero
del monte Bizen già intravedeva il Mar Rosso, quando gli avvenne di deviare
momentaneamente verso il monastero di Gundé-Gundé. Qui strinse amicizia con
l’abba Teclè Haimanot, nativo di Gualà: da questo incontro nacque un sodalizio
che morì solo insieme a loro.
Nel settembre
l840 scese al mare di Massawa; cercò un’occasione di imbarco e la trovò
nell’incontro con Giustino De Jacobis; questi stava per incontrare nel Tigrai
il Principe Ubié, dal quale riceverà l’incarico di guidare una ambasceria al
Cairo per domandare al Patriarca della Chiesa Copta dissidente un Abuna
(Vescovo) per l’Abis-sinia, giacché la sede era vacante da 12 anni. De Jacobis
accettò alla sola condizione che l’ambasceria potesse recarsi anche a Roma, a
fare visita al Papa. E nel gruppo della Deputazione prese posto anche Ghebré
Micael.
Nel Diario e nelle Lettere di San
Giustino De Jacobis è riportato l’incontro con la deputazione abissina per
l’Egitto, ed è narrato anche il colloquio, avvenuto ad Adua nel gennaio 1841,
tra Giustino e Ghebré Micael, appunto. Ne risulta una iniziale e naturale
diffidenza, da parte di Ghebré Micael, per un prete cattolico; da parte di
Giustino, certamente l’apprezzamento per la rettitudine e la semplicità
d’indole di un uomo esemplare per l’in-nocenza della vita, immersa nella
profonda preghiera.
Il viaggio al Cairo ebbe le
tipiche difficoltà dei grandi viaggi di quel tempo. Ma al Cairo (30 aprile
1841), l’in-sensata scelta dell’Abuna per l’Abissinia fatta dal Patriarca fu
per lui e per tutti gli altri una vera delusione. Al confronto, l’opportunità
di raggiungere Roma costituì un’autentica e provvidenziale apertura di
speranza. L’am-basceria partita da Alessandria, fermatasi in quarantena a
Malta, raggiunse il porto di Napoli il 12 agosto e il giorno dopo Civitavecchia;
di qui giunse a Roma. Gregorio XVI subito concesse udienza ai deputati
abissini quali, poi, per tutto agosto visitarono i luoghi santi romani,
commossi ed estasiati dall’accoglienza del Papa e dalla magnificenza e
sacralità di Roma. Ritornati a Napoli, furono ricevuti dal Re Ferdinando e
dalla Comunità religiosa di Giustino nella Casa Provinciale.
Proseguirono
sulla via del ritorno, passando per Gerusalemme: ancora un pellegrinaggio di
tre mesi, anche questo ricco di esperienze e profonde impressioni.
La verità
della Santa Sede ed i luoghi toccati dal-l’Umanità del Cristo si riassunsero in
un insieme di sentimenti, che spinsero lo spirito di Ghebré Micael ad un
profondo esame di coscienza; la cautela era forte, ma altrettanto grande era
l’inevitabile ammirazione per l’ascendenza spirituale di Giustino De Jacobis.
Questi, da parte sua, non volle aver fretta nel prevenire la Grazia.
Nel
febbraio 1842 Ghebré Micael e la carovana lasciarono l’Egitto per l’Abissinia.
Prima della partenza Ghebré Micael si riconciliò con il suo Patriarca, trovando
un compromesso in una formula di fede riassuntiva di tutte le altre nel paese e
che l’Abuna Salama avrebbe dovuto propagandare da Adoua fino a Gonder.
Cosa che, peraltro, non fece mai. Piuttosto da parte di Salama l’atteggiamento
fu ostile: Ghebré Micael fu oggetto di avversione, imprigionamento, e
tentativi di avvelenamento. Ghebré Micael, intanto, di ritorno in Adua, dopo
alcuni mesi di riflessione e di consiglio, il 2 maggio 1844, nelle mani
di San Giustino volle definitivamente abiurare tutte l’eresie del suo
paese.
Arrivato
al culmine della sua laboriosa e sincera ricerca della verità, l’abba Ghebré
divenne apostolo del cattolicesimo in Abissinia. Non si staccò più da Giustino
De Jacobis che lo spinse in prima linea nella causa missionaria. Insegna,
discute, studia; rivede e corregge libri liturgici; traduce in lingua Ghe’ez
testi di Dogmatica e Morale cattolica per lo studio nel seminario di Gualà
(dicembre 1844) ove forma i seminaristi ed i preti convertiti a vita cristiana
e sacerdotale.
Le minacce
dell’Abuna Salama raggiungono Gualà, maggiormente quando viene scoperta in quel
luogo la
presenza di Monsignor Massaia che
aveva proceduto anche a Sacre Ordinazioni (1847). Piovono le scomuniche e gli
interdetti del vescovo eretico e ne viene fuori proprio una sommossa civile e
religiosa. I cattolici si rifugiano in Alitiena, mentre il De Jacobis deve
prendere la via dell’esilio verso Massawa, dove verrà consacrato vescovo dal
Massaia l’8 gennaio 1849.
Mentre la
prima ondata persecutoria declinava, Ghebré Micael, insieme a due compagni,
rientrò in Gonder di nascosto. Ma tradito da un prete apostata, viene messo ai
ferri nelle prigioni dell’abuna Salama (1850). Tre mesi di sofferenza e poi la
liberazione per ordine espresso del principe Ubiè presso il quale Giustino,
abbandonando il suo esilio, presentò audacemente le sue richieste di intervento.
L’abate
Ghebré Michele il 1º gennaio 1851 in Alitiena viene consacrato sacerdote da
Giustino De Jacobis, dal quale viene inviato ad Halai, dove sta sorgendo un
nuovo avamposto missionario; ma per pochi mesi, perché di nuovo la sua presenza
viene richiesta a Gonder. Il suo arrivo risultò veramente fruttuoso, ma intanto
su Gonder la comparsa del nuovo conquistatore Kassà (Teodoro II) scatenò una
nuova persecuzione, in accordo con l’Abuna Salama. Ai due personaggi tutto dovè
inchinarsi: forze politiche e settarismi religiosi, musulmani e protestanti. Di
contro ebbero solo, impavido e sicuro, uno sparuto gruppo di eroici cattolici,
sorretti da Ghebré Micael e da Giustino Vicario Apostolico.
Giustino giunse notte tempo a
Gonder, ma con i suoi non poté tenersi nascosto a lungo; la loro residenza fu
sorvegliata a vista già dal 13 giugno 1854 fino al 15 luglio seguente. In
questo giorno i satelliti dell’Abuna ed soldati di Teodoro misero tutti in
catene.
Giustino,
nelle sue pagine, riporta un elenco di sedici persone imprigionate: tra essi
compare il nome dell’abba Ghebré Micael. Ma questi viene subito separato dagli
altri nelle carceri dell’Abuna e sempre più isolato: fu oggetto di percosse e
torture, tra cui quella del Ghend. Per tutti i mesi seguenti sopportò
interrogatori, battiture, fame e rigori di prigione. Sul finire di
dicembre l’Abuna lo sottopose ad una violenta flagellazione e, in
qualità di Abuna, rifiutandosi di ucciderlo, lo consegnò alle mani di
Teodoro.
Il 14
marzo 1855, ancora tra interrogatori, minacce, percosse, flagellazioni,
la collera di Teodoro sfiorò la bestialità inveendo sul Martire: questi,
invece, dopo due ore di frustate subite, apparve rialzarsi rinvigorito e sano.
Il 31 maggio fu condannato a morte, ma di fatto fu risparmiato e rimase in
catene nell’ambulante carcere militare, al seguito dell’esercito. Il suo
corpo, ferito ed estenuato, ancora per due mesi sopportò le marce, seguendo
l’imperatore. Tanta resistenza fisica e morale impressionò talmente i
soldati, che considerarono l’eroico martire come un San Giorgio redivivo. Morì
il 30 luglio 1855, proprio il giorno della festa di San Giorgio nel calendario
copto (23 di Hamlé).
San
Giustino De Jacobis, in una sua lettera del 30 gennaio 1856, così parlava al
Padre Generale Etienne, della morte Ghebré Micael:
“Abba
Ghebra Michele..., or ora morto nelle catene per la fede Cattolica,
quest’ingegno Abissinese perspicace, colto, retto, esemplare sempre ed
attivo...”.
Nella
lettera del 4 gennaio 1856 ricorda che Ghebré Micael era stato ammesso, mentre
era ancora in prigione, in Congregazione.
Papa Pio
XI lo elevò agli onori degli altari il 3 ottobre 1926.